Relativo agli articoli “Cani in Aspromonte parte prima e seconda”
Caro Giovanni, ho letto con attenzione e interesse gli articoli sui cani di Mannera e il tentativo di
reinserirli in Aspromonte. Mi è tornato subito in mente quando venni contattato da un responsabile del Parco del Pollino (che non c’entra nulla con l’Aspromonte ma che coinvolge in
parte anch’esso la regione calabrese), per un preventivo di un progetto di inserimento di cani da guardiania del tipo pastore abruzzese nelle loro realtà pastorali. Preventivo di progetto al
quale non ebbi mai risposta. Al tempo ero il coordinatore scientifico del C.I.R.Ca, centro di ricerca per cani da lavoro. Era il 2014 e avevamo diversi progetti già in itinere e così cadde nel
dimenticatoio. Quello che però mi ha colpito dell’articolo è proprio l’approssimazione con cui viene affrontato il problema. Siamo nel 2020, esiste ormai materiale documentale a sufficienza per
operare con dei protocolli testati e validati. Ciò nonostante si continua ad andare per a braccio sulla scorta di dicerie, opinioni e tentativi vari. Finché ci si continua a basare sulle
convinzioni dei pastori, su scritti e documenti storici di scarso valore scientifico, in questo campo non si va da nessuna parte. Sfatiamo intanto il mito che i pastori sanno come allevare e
gestire cani da guardiania. Quanti cani, figli di cani che sapevano fare il loro mestiere, sono stati eliminati fisicamente dai pastori perché risultati inadatti? Quante volte mi sono sentito
dire, questo cucciolo è uscito male. Non hanno la più pallida idea del perché un cane lavora bene e l’altro no; da cosa dipende e quali siano le ragioni. Nel caso del cane di Mannera, già
stiamo parlando di una non “razza”. Perdona la crudezza, ma di fatto è così. Lo dicono gli stessi siciliani che è un cane meticcio per antonomasia. Ognuno alleva ed incrocia questi cani a
piacimento e tiene quelli utili ai propri fini eliminando quelli dannosi. Quindi di quali eventuali predisposizioni genetiche all’attività di guardiania stiamo parlando? E dunque si
prendono questi cani no guarantee , che magari da diverse generazioni non sono più stati impegnati per gli scopi originari della loro esistenza e si buttano tra gli ovi-caprini, stando a
guardare cosa succede; ovvero se funzionano. È veramente disarmante. È vero, inizialmente si faceva così – era questo il sistema per selezionare cani adatti al lavoro di guardiano del
gregge. Accoppiavi cani che funzionavano, eliminando strada facendo tutti quelli non utili o dannosi. Penso che però oggi dovremmo essere un po’ più avanti rispetto a questi sistemi atavici e
soprattutto crudeli. Ci sono stati anni di studi di persone come Raymund e Lorna Coppinger, Paolo Breber, Jean Marc Landry e altri che hanno consentito di ottenere un bagaglio di
informazioni tale da poter iniziare ad affrontare il problema in modo più scientifico, razionale e dunque in modo più efficace. Ma anche loro si sono fermati ad osservare ed analizzare i
comportamenti di questi cani, spesso basandosi esclusivamente sulle predisposizioni genetiche delle diverse razze. Il problema nell’etologia sta nel fatto che l’osservazione di un determinato
comportamento è alterata dalla soggettività di chi osserva. In base al bagaglio di studio, culturale, ma anche di elementi emotivi, l’interpretazione del comportamento osservato non sempre
fornisce un dato oggettivo. Per cui, quale è l’elemento fondamentale che ci consente di verificare se abbiamo veramente capito cosa sta accadendo. E qui mi rifaccio al mio mentore de
relato che è Konrad Lorenz. Lui sosteneva che quando si osserva un determinato comportamento, si osserva cosa accade e come accade, ma l’unica risposta che ci consente di ottenere un
risultato è comprendere perché accade. Il cosa ed il come non ci consentono di replicare il risultato, ma solamente il perché ci fornisce gli strumenti per riprodurre un esito precedentemente
osservato. È questo che la scienza esige per essere considerata tale. È l’elemento chiave che la consacra come tale. Si osserva un fenomeno, lo si studia per conoscerne
l’origine e lo si replica. Faccio un esempio banalissimo. Osserviamo colori diversi e si potrebbe pensare che ognuno è un elemento cromatico a se stante. Poi iniziamo a mischiare alcuni di
loro e ci accorgiamo che unendo determinati colori ne otteniamo degli altri, che attraverso la semplice osservazione non ci avrebbero consentito di sapere che sono il risultato
di tale commistione. Per cui, se dico che mischiando il giallo con il blu ottengo il verde, lo posso dire perché procedendo a tale operazione ottengo il colore desiderato. Questa è la prova
scientifica che la mia supposizione è valida. Ora so di peccare di una buona dose di presunzione, ma sembra che io sia stato il primo e, a quanto pare, ancora l’unico che si ponga il
problema del perché i cani da guardiania agiscono in un certo modo. Infatti, si continua imperterriti a prendere dei cani che, secondo la naturale destinazione della loro razza, dovrebbero
fare la guardia agli animali da reddito e li si consegna alle aziende, per poi osservarli e vedere cosa succede. Fare dei test, a cani in età adulta, inseriti in tal modo nel contesto
pastorale, per verificare la loro funzionalità è fallimentare già come concetto di fondo. Pregiudica la buona riuscita e crea l’ulteriore problema di cosa fare con i cani inidonei. Invece di
eliminare il problema della predazione andiamo a creare disagi ulteriori ad aziende già in difficoltà. Negli ultimi vent’anni mi sono dedicato allo studio delle ragioni che portano determinati
cani ad avere specifici comportamenti rispetto ad altri e una volta individuate le ragioni ho iniziato a replicare le condizioni più ottimali per ottenere il risultato sperato. Infatti,
osservando pedissequamente dei precisi protocolli si sono ottenuti sempre i medesimi risultati e nei progetti così organizzati non sono mai emersi cani inidonei al lavoro. Ovviamente qualcuno è
risultato più bravo di qualche altro, ma è un fatto legato alle individualità caratteriali. Mai si è verificato che un cane fosse risultato inadatto a quel tipo di lavoro o addirittura dannoso
per l’attività dell’azienda. In qualche raro caso sono emerse delle piccole tare comportamentali da attribuire esclusivamente all’inosservanza da parte degli allevatori nell’applicare le
indicazioni fornite. Ecco perché è fondamentale che in un progetto di inserimenti di cani da guardiania venga fatta prima una valutazione preventiva del problema nel suo complesso. Va valutata la
gestione dell’azienda in linea generale, la conformazione geomorfologica del territorio, la stima in termini di quantità e qualità di predatori. Poi vanno preparati i titolari dell’azienda
e relativi operatori per la corretta gestione dei nuovi collaboratori a quattro zampe. Infine, potendo solo raramente fare affidamento agli aggiornamenti forniti da chi poi è deputato a gestire i
cani, necessitano verifiche mensili da parte di persone specializzate nel settore, affinché venga assicurato l’idoneo sviluppo psicologico dei futuri guardiani. Questo è l’unico sistema idoneo
per ottenere dei risultati tangibili e utili alla mitigazione del conflitto tra aziende zootecniche e predatori. Per cui, vedere che ancora oggi si affronti questo problema con una tale
approssimazione è fortemente scoraggiante. A me non interessa essere in prima linea. Non ho velleità di primeggiare e non sono un accentratore. A me basterebbe sapere che chi vuole approcciare il
problema lo faccia in modo scientifico e faccia uso dei sistemi ormai già testati con risultati efficaci. Il dr. Duccio Berzi, che è stato uno dei primi a chiedere la mia collaborazione, può
testimoniare che i danni da predazione in Toscana si sono ridotti notevolmente a seguito del nostro intervento. Altrettanto è avvenuto in Umbria, nella provincia di Terni, come può
testimoniare il dr. Maricchiola, promotore di un progetto quinquennale. Credo che anche la dott.ssa Luisa Vielmi, referente del progetto di Grosseto può confermare la validità dei sistemi da me
adottati. Del resto, dopo tale esperienza la Vielmi ha creato una attività ex nova del settore che si chiama “Difesa Attiva”, basata sulle nozioni da me apprese durante il progetto.
L’unico rammarico è che nessuno ha mai fatto una ricerca statistica sul prima e dopo, affinché potessero parlare i numeri. Ad ogni modo, non ho mai fatto un segreto dei miei studi, delle mie
esperienze e dei risultati ottenuti. Basterebbe che chi vuole fare questo mestiere si approcciasse con un po’ più di umiltà al problema, utilizzando metodi già pluritestati, anziché confondere i
sistemi d’imprinting e condizionamento dei rapporti di comunicazione interspecifica con i sistemi di condizionamento operante, utilizzati dagli educatori cinofili. Oggi invece nascono tutti
esperti, ma vorrei vedere quanti si cimenterebbero nel settore se nei contratti di collaborazione per la fornitura dei cani da guardiania ci fosse la clausola che i cani risultati non idonei
andrebbero restituiti e ricollocati da chi li ha forniti, come è stato p.e. nel progetto di Grosseto. Lì, attraverso le verifiche, anche a sorpresa, siamo riusciti a dimostrare la cattiva
gestione da parte di alcuni nuovi affidatari, ritirando i cani e ricollocandoli in altre aziende. Seguendo passo passo il loro riadattamento ancora oggi i cani ricollocati lavorano con ottimi
risultati. E qui mi torna in mente il vecchio proverbio abruzzese “ ognune all’arte se e le pecore a ju lupe”.