Di Sandro Allemand, per il cambio del nome da " cane da pastore maremmano-abruzzese" a semplicemente  "cane da pastore abruzzese"

 

“CANE DA PASTORE ABRUZZESE”. Così deve essere chiamato il cane bianco da pecora dell’Italia centro meridionale.

Sandro ALLEMAND

 

PREMESSA

Questo breve lavoro ha lo scopo di dimostrare che il nome corretto per il cane bianco da pecora, oggi denominato dalla cinofilia ufficiale “ cane da pastore maremmano – abruzzese”, è quello di “cane da pastore abruzzese”, in quanto coerente con la sua storia e con la sua effettiva diffusione. Tenteremo di dimostrarlo ripercorrendo la millenaria storia della razza, individuando quali sono stati nei secoli passati i territori dove essa è stata presente in maniera più significativa, attraverso l’analisi delle più importanti rotte di transumanza dell’Italia centro meridionale, ed  infine mediante una serie di testimonianze che avvalorano la tesi che il nome corretto del cane sia quello di “pastore abruzzese”.    

 

 

 

 

 I TERRITORI  ADATTI ALL’ALLEVAMENTO DELLE PECORE

Da una seppur sommaria analisi dell’andamento della dorsale appenninica appare evidente come questa dorsale, fino al massiccio del Monte Vettore ( Umbria-Marche), non risulti idonea, per la scarsità di importanti aree a pascolo di alta collina  o di montagna, per un allevamento ovino su larga scala.

A partire dal massiccio del Monte Vettore, invece, inizia una vastissima area di montagna perfettamente adatta ad un allevamento ovino di grandi proporzioni: l’acrocoro (altopiano, massiccio montano spesso circondato da contrafforti più elevati) abruzzese – molisano, che si sviluppa per oltre 150 Km di lunghezza. Quest’area, delimitata a nord dai fiumi Nera e Tronto e a sud dai fiumi Volturno e Sangro,  è la più elevata e più aspra dell’Appennino, con imponenti catene montuose con andamento parallelo all’asse appenninico, con vette che superano spesso i duemila metri, fino ad arrivare al Gran Sasso che  raggiunge quasi i tremila. La maggior parte di queste cime si trova in Abruzzo, mentre alcune sono presenti nel Lazio, nelle Marche e nel Molise.

Questa ampia fascia montuosa presenta, in particolare in Abruzzo, valli interne, anch’esse ad andamento longitudinale, di grande ampiezza e perfettamente adatte all’allevamento delle pecore.

Questo sistema montuoso, a cui abbiamo fatto riferimento, si può schematicamente suddividere in tre catene – orientale, centrale e occidentale – che racchiudono le grandi conche abruzzesi di Rieti, di Avezzano o del Fucino, di Sulmona o Valle Peligna e di L’Aquila

La catena orientale è la più alta e comprende tre massicci:

·         monti della Laga

·         Gran Sasso d’Italia

·         Gruppo Morrone-Maiella

La catena occidentale, orientata verso il mar Tirreno,  è la meno alta del sistema e presenta tre gruppi di monti:

·         monti Sabini

·         monti Simbruini ed Ernici

·          gruppo Meta Mainarde

La catena centrale comprende i gruppi del:

·         Monte Velino

·         Monte Sirente

·         Monte Grande o Montagna Grande

Quest’ultima catena si raccorda con la catena orientale, a nord, con il Monte Terminillo, e con la catena occidentale, a sud, con i monti della Marsica.

Come abbiamo già osservato, quattro grandi conche sono collegate a questi sistemi montuosi:

la conca di Rieti (quota media slm 400 m), che attualmente ricade nel Lazio, ma che orograficamente, e in passato, in gran parte, anche politicamente, fa parte dell’acrocoro abruzzese, si allunga da nord-ovest a sud-est parallelamente ai monti dell’Appennino abruzzese. È chiamata anche Valle Santa, dal momento che per più anni in questi luoghi soggiornò San Francesco fondando importanti santuari francescani (La Foresta, Poggio Bustone, Fonte Colombo e Greccio). La conca di Rieti è delimitata ad ovest dai Monti Sabini, ad est dai Monti Reatini, a nord dalla Valnerina e dalla Conca Ternana e a sud dall’alta valle del Salto e del Turano ed è percorsa per tutta la sua lunghezza dal fiume Velino.

 

 

 

La conca di Avezzano o conca del Fucino, il grande lago bonificato nei secoli scorsi,  è un altopiano della Marsica, in Provincia di L’Aquila, con un altitudine tra i 650 e i 680 m s.l.m., contornato da rilievi montuosi, come quelli della Vallelonga a sud, del gruppo Sirente-Velino a nord – nord-est e del Monte Salviano ad ovest.

La conca di Sulmona  o Valle Peligna, è un altopiano interno centrale, in provincia di L’Aquila, ad una quota di circa 400–500 m s.l.m.  È attraversata dai fiumi Aterno e Sagittario che confluiscono nel Pescara. Confina a nord-ovest con la conca del Fucino, a sud con la valle del Sagittario, a sud-ovest con i Monti Marsicani, a nord-est con la valle dell’Aterno, tramite il massiccio del Monte Sirente e la valle Subequana, a est e sud-est con il massiccio della Maiella.

La conca Aquilana  (quota media s.l.m. 700- 800 m), appartiene alla Valle dell’Aterno, è la più grande e la più alta di tutte. È delimitata a nord-est dalla catena del Gran Sasso d’Italia, a sud dalla catena del Velino-Sirente ed il gruppo montuoso di Monte Ocre-Monte Cagno, a ovest da altre dorsali montuose minori (gruppo montuoso Monte San Rocco-Monte Cava e Monte Calvo) e a nord dai Monti dell’Alto Aterno.

Questo complesso orografico presenta alle quote più alte immensi altopiani incolti dove, nei secoli, si è sviluppata un’industria armentizia di dimensioni eccezionali. Tra  questi grandi altopiani d’Abruzzo non possiamo non ricordare l’immenso altopiano di Campo Imperatore sopra L’Aquila, i Piani delle Cinque Miglia, del Quarto Grande e del Quarto di Santa Chiara negli attuali territori di Roccaraso, Rivisondoli, Pescostanzo e Campo di Giove; l’Altopiano delle Rocche, i Piani di Pezza e i prati del Sirente, che separano i massicci del Velino e del Sirente, nel territorio degli attuali  paesi di Ovindoli, Rovere e Rocca di Mezzo, l’altopiano di Campo Felice; Passo Godi, nel territorio di Scanno (AQ); Pian di Roseto e i Piani di Tivo nel Teramano; l’altopiano della Macchiarvana tra Pescasseroli ed Opi, l’altopiano del Voltigno sopra Castelli (AQ); Pian di Rascino ( attualmente in territorio laziale, ma orograficamente e prima anche politicamente abruzzese) e tanti altri. Senza contare le grandi aree a pascolo alle pendici dei monti della Laga, sopra Campotosto e Amatrice ( Abruzzo fino a non molti decenni orsono), della Majella e del Monte Morrone, solo per citarne alcune.

Prima dell’inverno le condizioni climatiche fortemente sfavorevoli, dovute all’altitudine di questi altopiani, che può variare dai m. 1300 ai m. 1600 e oltre s.l.m., rendono indispensabile lo spostamento delle greggi in  basso, verso i pascoli di pianura. Questa migrazione dalla montagna alla pianura e quella che avverrà in primavera dalla pianura alla montagna è chiamata Transumanza.

 

 

LA TRANSUMANZA

 

La parola Transumanza deriva dal latino “trans” (al di là) e “humus” (terra) = attraversare la terra, con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate nei pascoli di montagna e in autunno al piano. Nel nostro caso possiamo definirlo come lo spostamento alternativo e periodico delle greggi tra due regioni geograficamente e climaticamente diverse tra loro. Questa migrazione stagionale avveniva attraverso i tratturi, dal latino “tractoria”, le strade dei pastori. La transumanza ha una storia antichissima che molto probabilmente coincide con la storia stessa dell’allevamento ovino, almeno a partire dall’epoca romana ( II sec. a.C.). Per primi, infatti, sono stati i romani a regolarla e disciplinarla,  attraverso la creazione di un complesso sistema di  leggi e di tasse da pagare nelle diverse Dogane, e già in epoca romana rappresentava una voce significativa per le entrate tributarie dello Stato. I flussi di transumanza erano sempre in senso discendente. La transumanza era praticata dagli allevatori montanari, proprietari delle greggi, che d’inverno scendevano nelle pianure, non avendo più pascolo disponibile nei loro territori a causa delle avverse condizioni climatiche.

 

 

LA GRANDE TRANSUMANZA ABRUZZESE

Accertato che l’Abruzzo montano, per le sue caratteristiche orografiche, era di gran lunga il territorio più idoneo per un allevamento ovino su vasta scala, e che di conseguenza in esso  si concentrava la stragrande maggioranza della popolazione ovina dell’Italia centro-meridionale, passiamo ora ad analizzare gli spostamenti periodici delle greggi alla ricerca del pascolo: le cosiddette transumanze.

 

 

Nell’Italia Centro-Meridionale la principale rotta di transumanza delle pecore si sviluppò nel Regno delle Due Sicilie, con diversi tratturi che collegavano gli Abruzzi alla Puglia. Il più importante era il famoso “Tratturo Magno”, o Tratturo del Re, una pista erbosa larga 111 metri e lunga 244 km  che collegava L’Aquila con Foggia. Prescindendo da ricostruzioni piuttosto fantasiose, da cui risulterebbe che attraverso i tratturi il numero di ovini abruzzesi che raggiungevano la Puglia avrebbe superato nei periodi migliori anche i 5 milioni, è comunque abbastanza certo che “  nella Dogana di Foggia, nonostante le ampie oscillazioni da un anno all’altro, con punte che superarono i due milioni, non si scende generalmente al di sotto del milione di capi fino alla fine del Settecento. (Saverio Russo “ Dopo le Dogane: le transumanze peninsulari nell’Ottocento”. Pertanto i numeri della transumanza abruzzese erano di gran lunga superiori a quelli delle altre due transumanze dell’Italia centrale, quella Toscana e quella della campagna romana (Pontificia) che, messe insieme, nei periodi di maggior splendore, raggiunsero i 400.000-500.000 capi ovini transumanti. Riguardo all’Abruzzo, soltanto dopo l’abolizione della dogana ( 21 maggio 1806) i capi transumanti in Puglia si ridussero a  500-600 mila, anche se a fine Ottocento tra Abruzzo e Puglia erano ancora  528.000 i capi ovini che utilizzavano gli storici tratturi, mentre altri  320.000 capi transumavano nell’Agro romano. La transumanza verso la Puglia seguitò a diminuire progressivamente, fino a raggiungere i 200-250.000 capi transumanti nei primi anni ‘50 del millenovecento, per ridursi ancora molto di più nei decenni successivi, fino alle poche  migliaia di oggi. Nel Lazio la presenza delle greggi abruzzesi ebbe, invece, il suo massimo all’inizio del ‘900, con circa 500.000- 600.000 capi ovini transumanti.

I registri di pagamento della fida relativi ai secoli XVII e XVIII  si sono conservati integralmente e permettono l’individuazione precisa dei proprietari delle greggi e la loro provenienza. La massima concentrazione dei proprietari era delimitata a Sud dalle località molisane situate tra la Maiella e il Matese  ( Frosolone, Pescopennataro, Vastogirardi, Agnone, Capracotta, Roccamandolfi, Macchiagodena), a nord dalle grandi Università ( istituzioni nate per la gestione dell’uso collettivo della terra) dell’Abruzzo reatino ( Amatrice, Leonessa, Accumoli ) a Est dalle località pedemontane della Maiella ( Palena, Caramanico, Gamberale) ed ad Ovest dalla linea Lucoli-Pescasseroli.

L’analisi della carta della provenienza dei proprietari di pecore alla Dogana di Foggia nel 1659 ci dà la possibilità di conoscere le aree di provenienza delle greggi transumanti dall’Abruzzo. Queste essenzialmente erano tre: la fascia compresa tra l’odierno Parco Nazionale d’Abruzzo e il versante occidentale della Maiella ( con all’estremità Villavallelonga e Palena), l’area pedemontana del Gran Sasso  ( attorno a Castel del Monte) e la zona tra l’Altopiano delle Rocche e l’Abruzzo reatino ( tra Lucoli e Amatrice). Da queste tre aree, e da alcune zone intermedie, proveniva il 69,6 % di tutti i locati ( coloro che affittavano i pascoli pagando un canone: la fida) della Dogana di Foggia, il restante 31,4% veniva dal Molise ( in quota maggioritaria), dalla Campania, dalla Basilicata, dal Lazio e dalla Puglia. In Abruzzo le prime, seppur vaghe, notizie di un’economia basata sull’allevamento con caratteristiche di nomadismo sono databili attorno all’VIII sec. a.C..  Il nomadismo era in generale praticato da popolazioni dell’Italia centro-meridionale, genericamente definite italiche. Le varie tribù erano legate tra loro più da elementi di carattere religioso che politico e dietro gli auspici delle loro divinità si muovevano in cerca di nuove terre per i propri animali. Queste popolazioni vivevano in villaggi sparsi e si dedicavano prevalentemente alla pastorizia. Tra queste  il gruppo più significativo era l’Osco che occupava la regione tra l’Appennino e l’Adriatico. Di questo gruppo facevano parte i Piceni (insediati nelle attuali Marche); i Peligni che si stabilirono nella piana di Sulmona; nell’area oggi occupata dall’Aquila si stanziarono i Vestini cismontani; a ridosso della Majella i Carricini ( gruppo etnico sannitico); nella zona del Fucino, gli Equi e i Marsi; lungo l’alta valle del Sangro, verso il Molise, i Pentri ( di origine sannitica); tra l’Aquila e Rieti i Sabini e nella regione costiera adriatica i Marrucini e i Frentani. Dall’occupazione romana di questi territori si cominciano ad avere le prime notizie storiche documentate sulla transumanza abruzzese. Esse risalgono al II secolo a.C., alla fine della repubblica romana, quando fu promulgata una lex agraria ( 111 a.C.)  e successivamente una Lex pecuaria ( 46 a.C.) che regolamentavano i percorsi lungo i quali si effettuava la transumanza, le calles pubblicae ( vie pubbliche). Queste leggi stabilivano che i pastori dovevano pagare una tassa, il “vectigale”, in proporzione al numero degli animali che possedevano e dell’ uso del pascolo e, in cambio, potevano transitare gratuitamente lungo le vie pubbliche. Queste regole, nei successivi codici di Teodosio e Giustiniano, vennero dette “tractorie”, da cui derivò il nome delle future strade d’erba: i tratturi. Poiché occorrevano molti giorni per raggiungere le pianure pugliesi, lungo questi percorsi sorsero dei centri di sosta “attrezzati”, le cosiddette tabernae mansiones, dove i pastori e le loro greggi potevano fermarsi per riposare. Numerose “strade” partivano dall’Abruzzo e andavano verso il Tavoliere delle Puglie, dando vita a quei tracturia il cui nome deriva, come già detto, dai codici di Teodosio e di Giustiniano. Che l’inizio di una vera e propria transumana  sia  legato alla conquista romana, e favorito dai vincitori, lo conferma il fatto che furono le antiche vie tracciate dai romani a segnare le direttrici di quelli che sarebbero poi diventati  quegli importanti tratturi che in epoca successiva avrebbero collegato le aree montuose abruzzesi e molisane con la pianura pugliese. Il tratturo l’Aquila-Foggia segue in parte i tracciati della via Claudia Nova e della Traiana, il tratturo  Celano-Foggia corrisponde alla via Romana o Valeria e il tratturo Castel di Sangro-Lucera corrisponde alla via Minucia.

Furono pertanto i romani, una popolazione tipicamente stanziale, che diedero vita al complesso sistema

 

     

 

Della transumanza e ne assicurarono l’esistenza e la durata nel tempo attraverso la sua regolamentazione e l’individuazione e la conservazione di precisi itinerari per il passaggio delle greggi. Tale pratica, affermatasi e rafforzatasi nei secoli dell’Impero Romano,  si ridusse, e rischiò addirittura di scomparire, in quel periodo di crollo demografico, di grande instabilità politica e di incertezza sull’integrità dei tracciati e dei pascoli invernali, che va dalla caduta dell’Impero all’inizio dell’anno mille. Da questa data la fase di crisi della pastorizia transumante venne decisamente superata, le transumanze rinacquero e si accrebbero rapidamente, sostenute dai regnanti del periodo. Re Ruggero ( Normanno), all’inizio dell’anno mille, fu il primo ad emanare delle norme volte a garantire ai pastori, dietro il pagamento di una tassa, percorsi di passaggio per le greggi e aree non coltivate per il pascolo. Successivamente Federico II emanò una nuova normativa in materia, con lo scopo di determinare le aree coltivabili e quelle da lasciare alle greggi, cercando così di risolvere il tradizionale e perenne conflitto tra due attività economiche difficilmente conciliabili tra loro: la pastorizia e la coltivazione della terra.  Se più tardi, ossia nel periodo di dominazione angioina, vennero inizialmente emanate norme a favore degli agricoltori, a cui venne assegnata parte delle terre a pascolo che facevano parte del regio demanio, con Giovanna II^ d’Angiò ( 1414-1435) si riconobbe  l’importanza della transumanza e fu creato un apposito tribunale per appianare le dispute che spesso nascevano tra gli stessi pastori e tra questi ultimi e gli agricoltori, gettando così le basi della futura organizzazione della Dogana. Fu però soltanto con Alfonso I d’Aragona che fu definitivamente riconosciuta l’importanza della pratica della transumanza e  fu  pienamente compreso il suo valore economico. Ad Alfonso I  è dovuta, infatti, l’istituzione di un  Ente specifico per la gestione del complesso sistema della transumanza, la Regia Dogana della mena delle Pecore ( 1447), con sede a Lucera, nonché l’organizzazione dei Regi Tratturi, una rete “stradale” che si diramava lungo tre direttrici: L’Aquila – Foggia, detta “Tratturo del Re”, Celano-Foggia e Pescasseroli-Candela. In questo periodo di grande sviluppo della transumanza si stima che circa trentamila pastori abbiano condotto annualmente fino a quattro milioni di capi ovini verso le pianure pugliesi. Più tardi, Ferdinando I trasferì la Regia dogana a Foggia, dove si teneva il grande mercato della lana e delle pelli. Quanto fosse importante il sistema dei tratturi, e la transumanza ad esso collegata, lo si apprezza anche dal fatto che lungo queste “vie” nacquero importantissimi insediamenti, come Teate Marrucinorum, l’odierna Chieti, Anxanum, cioè Lanciano, e Larinum ( oggi nei pressi di Larino in Provincia di Campobasso), lungo il tratturo l’Aquila – Foggia; Sulmo ( Sulmona) e Aufidena ( Castel di Sangro), lungo il tratturo Celano – Foggia e Bovianum e Saepinum ( le odierne Boiano  e Sepino in provincia di Campobasso)  lungo il tratturo Pescasseroli – Candela.  L’intera consistenza tratturale oggi risulterebbe costituita da una rete di oltre 3.100 chilometri di strade, estese, nel complesso, circa  21.000 ettari. Nella sola Provincia di Foggia, alla fine dell’800, la rete dei  tratturi era di circa 370 chilometri.

Contemporaneamente alla nascita di queste città sorsero lungo i percorsi importanti luoghi di culto: dai santuari di Eracle nell’ambito della religiosità greco-romana, alle numerose chiese dell’epoca cristiana (chiesa di Monte Calvario, presso Foggia, Santa Maria della Iaconicella preso Lanciano, Santa Maria in Cintorelli presso Caporciano).

 

                Santa Maria in Cintorelli

 

A questi luoghi di culto si aggiunsero poi, mulini, botteghe e taverne. Nel tempo in varie città, come Castel di Sangro,  Morcone,  Circello e  San Bartolomeo in Gualdo, si diede vita ad importanti  fiere, legate ai momenti cruciali della transumanza: maggio e settembre.

La fine della Dogana

Alla fine del XVIII secolo la Dogana visse in maniera sempre più confusa gli ultimi anni della sua vita. Il mancato rispetto delle regole, l’avvento del brigantaggio, l’instabilità del Governo centrale, portarono il Tavoliere a diventare una vera e propria terra di frontiera. Nel tentativo di porre un freno alla decadenza dell’istituzione, Ferdinando di Borbone, nel 1804,  avviò un progetto di riforma attraverso la censuazione, ossia il pagamento di un canone sui terreni utilizzati, e nell’anno successivo concesse l’affrancazione dei canoni su parte delle terre demaniali che erano state coltivate.

Ormai, però, la storia della Dogana era al suo epilogo: nel 1806 ritornarono i francesi e Giuseppe Bonaparte, il 21 maggio, soppresse la Dogana e il primo settembre decretò la divisione di tutte le terre demaniali, baronali, ecclesiastiche e comunali e la loro concessione in fitto, dietro la corresponsione di un canone annuo, a coloro che già ne beneficiavano. Sostanzialmente la decisione di abolire la Dogana nasceva dalla volontà di favorire il più possibile lo sviluppo delle potenzialità agricole del Tavoliere, in modo da promuovere una decisa crescita economica e civile dell’agricoltura costiera, tale da garantire l’approvvigionamento dell’intero Regno. L’attività agricola, infatti, è in grado di fornire molto più “cibo” rispetto a quello che può garantire la pastorizia. Questa tendenza a favorire la coltivazione della terra, a scapito della pastorizia transumante, proseguirà e anzi si accentuerà dopo l’Unità d’Italia.

Nonostante la fine della dogana a fine Ottocento tra Abruzzo e Puglia erano ancora  528.000 i capi ovini che utilizzavano i tratturi, mentre altri  320.000 capi andavano verso l’Agro romano. Gli ovini che svernavano ancora nel Tavoliere utilizzavano le aree non occupate da una sempre più diffusa cerealicoltura, anche se abbiamo esempi significativi di azienda agricola mista cerealicolo – pastorale, ove si realizzò una positiva integrazione tra la cerealicoltura e l’allevamento ovino. Il perenne conflitto tra l’abruzzese pastore e il pugliese agricoltore iniziò gradualmente a risolversi quando l’armentario abruzzese, una volta affrancati i canoni, diventò proprietario a pieno titolo di una parte importante delle terre del Tavoliere, cominciò a riservare una quota della superficie, prima riservata al pascolo, per la cerealicoltura e introdusse erbai seminati per l’alimentazione delle pecore. 

 

LA TRANSUMANZA NELLA CAMPAGNA ROMANA

 

Un’altra rotta di transumanza, anch’essa di origini molto antiche, anche se più corta di quella tra l’Abruzzo e le Puglie, era quella che  collegava i territori montani del regno pontificio, ed inizialmente anche l’Abruzzo, alla Campagna Romana. È proprio nello Stato pontificio che nel 1402, con Bonifacio IX, venne istituita  la prima Dogana. La dogana dei pascoli del patrimonio di San Pietro in Tuscia forniva alle greggi abruzzesi pascoli invernali che si estendevano dalle porte di Roma ai confini della Toscana e dell’Umbria. Le sue origini risalivano già all’antichità  e le notizie relative a una sua più moderna fondazione risalgono intorno al 1289. Nel XIV secolo le greggi transumanti nello Stato Pontificio fornivano prodotti caseari e carne ai mercati romani e lana tanto ai mercanti Toscani quanto alle prime industri tessili nate nel territorio laziale. Nel 1452, dopo quasi mezzo secolo caratterizzato da continue guerre, dalla diffusione del brigantaggio e dalla diminuzione della popolazione presente nell’agro romano, il Papa Nicola V promulgò una nuova costituzione della propria dogana, in risposta alla istituzione della dogana del Regno delle Due Sicilie. La dogana romana nell’ organizzazione era molto simile a quella del regno di Napoli. La Camera Apostolica nominava un doganiere che amministrava il sistema. Gli armentari erano esentati da tasse locali, dall’obbligo del pagamento di diritti di passo su terreni privati per raggiungere i pascoli ed erano provvisti di speciali privilegi giudiziari. L’introito della dogana romana, però, era di molto inferiore rispetto a quello della vicina dogana meridionale (alla metà del XV secolo le pecore presenti erano meno di 110.000),anche perché la superficie disponibile per il pascolo era di dimensioni molto più ridotte.  La transumanza nella campagna romana si accrebbe notevolmente nel 1477 quando papa Sisto IV obbligò tutti i pastori del Regno della Chiesa a portare le greggi a svernare nell’Agro Romano (anche quelli delle Marche) che queste raggiungevano percorrendo le vie consolari Salaria e Flaminia. Anche se mancano  dati certi sulla Dogana laziale riguardo agli ettari di terreno destinati al pascolo si stima che in quegli anni il numero dei capi ovini presenti fosse di circa  200.000- 250.000 capi.

La transumanza nel Lazio aumentò in maniera considerevole a partire dal 1800, perché quella verso il Regno delle due Sicilie, con la soppressione della Dogana di Foggia,  diminuì in maniera drastica e molte greggi abruzzesi, non più obbligate alla transumanza verso la Puglia, arrivarono nei pascoli romani. Si passò così nella campagna romana dalle poche migliaia di capi ovini di fine Settecento, ai 50.000 capi dei primi decenni dell’ Ottocento, ai  320.000 capi di fine Ottocento, la maggior parte di provenienza abruzzese.  Il maggior incremento della presenza ovina nel Lazio si ebbe, però, all’inizio del ‘900, con circa 500.000/600.000 capi, anche questi provenienti prevalentemente dall’Abruzzo. Le pianure laziali, dove l’espansione della cerealicoltura e delle coltivazioni arboree fu meno rapida rispetto ad altri territori, a partire dalla fine dell’800 divennero così la sede di un allevamento ovino di  notevoli proporzioni. La razza ovina nettamente più diffusa era la Sopravvissana, una pecora selezionata nel 1700,  derivante dall’incrocio tra le pecore Vissane e gli  arieti Merinos Rambouillet. 

 

 

 

 

LA TRANSUMANZA IN TOSCANA

 

Come nel resto dell’Italia centro-meridionale, anche in Toscana i flussi di transumanza si svolsero in senso discendente. Sicuramente rispetto ad altre regioni italiane, quali l’Abruzzo, La Puglia ed il Lazio, in Toscana il fenomeno della transumanza fu molto più limitato, in quanto le campagne toscane erano caratterizzate da una fascia collinare molto estesa dove era diffusa la  mezzadria, un particolare contratto agrario con il quale un proprietario di terreni e un coltivatore (mezzadro) si dividevano  (di solito a metà) i prodotti e gli utili provenienti dall’attività agricola. Fu proprio questa particolare forma di gestione dell’azienda agricola che rese impossibile la pratica della transumanza in quei territori. Soltanto la Maremma, in Toscana, rappresentava uno dei pochi ambienti in grado di garantire un pascolo invernale che poteva essere utilizzato dalla pastorizia transumante appenninica, tanto che questo territorio fu interessato, già nel tardo medioevo, dalla nascita della Dogana dei Paschi, istituita dalla Repubblica di Siena nel 1419 per regolamentare con delle apposite norme il pascolo e per avere delle entrate fiscali dalla sua concessione agli allevatori che transumavano in quelle terre.

Il bestiame transumante, non solo ovino, ma anche bovino, suino ed equino, proveniva essenzialmente dal versante appenninico toscano e principalmente dalla Lunigiana, dalla Garfagnana, dal Mugello, dal Casentino e dalla Val Tiberina, dove ci sono zone di pascolo montano, anche se di modeste dimensioni, adatte all’allevamento. Una piccola parte del bestiame proveniva anche dall’Appennino Emiliano e Romagnolo.

Al contrario della Dogana di Foggia, che tra le varie competenze prevedeva un’opera di divisione e assegnazione (locazione) dei propri pascoli, a singoli o a gruppi di pastori (locati), commisurando la superficie di terreno assegnata al numero dei capi posseduti da costoro, nella Maremma senese ciascun allevatore, attraverso il pagamento di una fida, poteva far pascere i propri animali muovendosi liberamente su tutto il territorio della Dogana. Questo tipo di pascolamento era fortemente irrazionale, perché la capacità nutritiva del pascolo tendeva a deteriorarsi a causa di un eccessivo carico di animali, ma soprattutto per la presenza di specie diverse ( tipo maiali e pecore), spesso incompatibili tra loro, sullo stesso terreno. Il pascolo, inoltre, era di bassa qualità, come attestano anche alcuni proverbi diffusi tra i pastori della montagna: “ Pascolo di Dogana pochi agnelli, meno lana”, oppure “Pascolo di Dogana fa poco cacio e poca lana”. La maremma toscana era poi caratterizzata dalla diffusa presenza del paludismo e della malaria che rendevano quella terra inabitabile nel periodo estivo, con una presenza umana molto ridotta e con un basso grado di messa a coltura delle campagne che apparivano dominate ampiamente dall’incolto e dalla vegetazione spontanea.

Il tipo di pascolo presente non era, pertanto, particolarmente adatto agli ovini che si alimentano quasi esclusivamente di erba, mentre i bovini e gli equini possono nutrirsi anche di fogliame e i suini di ghiande. Soltanto i terreni che prima della semina venivano regolarmente lavorati permettevano alla vegetazione spontanea delle «stoppie» e delle «manzine» (come vengono chiamati, rispettivamente, i terreni che venivano lasciati a riposo per un anno o per due) di rimanere costantemente ad uno stadio erbaceo, idoneo per le esigenze nutritive delle pecore. Ad esclusione di questi terreni lavorati, il suolo invece era generalmente caratterizzato dalla presenza di una vegetazione dove prevalevano i cespugli, gli spini e la macchia che, oltre ad essere di scarso valore nutritivo per le pecore,  potevano provocare perdite di lana quando gli animali vi rimanevano impigliati.

Come dato indicativo sui  flussi tra Appennino e Maremma senese, che comprendeva l’attuale maremma grossetana, possiamo riportare i dati relativi ai capi ovini fidati a Dogana da cui risulta che negli anni compresi tra il 1576 e il 1586 la media annuale era di circa 280.000 capi, mentre dal 1761 al 1765 era di circa 209.000 capi. Nella  maremma toscana in generale, secondo i dati forniti da D. Barsanti, tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60 del Settecento, veniva condotto mediamente a svernare un numero approssimativo di 310.000 capi di bestiame, e non solo ovino, dei quali circa 225.000 capi nella maremma senese. Nella seconda metà del 1700 la transumanza tra Appennino e Maremma  iniziò a ridursi progressivamente  e i capi “fidati” nella Dogana dei Paschi Toscana cominciarono a calare nettamente al disotto dei 200.000.

A metà Settecento, nella Maremma senese del Granducato di Toscana, si calcolano circa 100.000 ettari di erbaggi demaniali, peraltro destinati solo in parte all’allevamento ovino, mentre nella Dogana di Foggia, considerando oltre agli ettari di pascolo della Regia Corte, quelli dei privati e degli enti ecclesiastici che la Dogana amministrava, nonché  i diritti vantati sulle terre lasciate a riposo prima della semina e su quelle dove veniva praticato il maggese, si superano certamente i  400.000 ettari e quasi tutti utilizzati per il pascolo delle pecore (si calcola che nel periodo di maggior sviluppo della transumanza nella Dogana di Foggia, a fronte di alcuni milioni di capi ovini, ci fossero soltanto 20.000 capi bovini).

LA FINE DELLE DOGANE

Un po’ dappertutto negli Stati italiani, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, furono modificate in maniera radicale le norme che fino ad allora avevano regolamentato l’uso della terra e che erano volte a favorire le varie forme di transumanza. Vennero così adottate una serie di provvedimenti orientati a favorire la proprietà agraria, mediante l’abolizione dei diritti promiscui e delle servitù di pascolo. La Dogana dei Paschi, nel  1778, fu la prima ad essere abolita, all’interno di una serie di norme di stampo liberistico. Venne soppresso l’ufficio e il magistrato dei Paschi di Siena e le terre incolte della Maremma, sia del Granducato di Toscana che di altri istituti pubblici, cominciarono ad essere concesse in proprietà o a livello ( sorta di affitto) a quanti volessero coltivarle.

 

 

IL CANE DA DIFESA DEL GREGGE

 

Una volta stabilito come l’allevamento ovino fosse prevalentemente praticato negli altopiani abruzzesi, e quali fossero le principali rotte di transumanza,  appare conseguente che anche i grossi cani bianchi, dal pelo lungo e dalla forte corporatura, che accompagnavano e proteggevano le pecore durante le lunghe transumanze primaverili e autunnali, fossero prevalentemente diffusi nelle montagne abruzzesi, anche grazie alla massiccia presenza del lupo in quei territori. Pertanto risulta evidente come la razza, oggi denominata “cane da pastore maremmano-abruzzese, abbia trovato la sua massima espressione e la sua maggior diffusione in Abruzzo ed abbia potuto conservare le sue caratteristiche morfo-funzionali, scoperte solo da alcuni decenni dalla cinofilia ufficiale, soltanto grazie all’accurata selezione portata avanti dai pastori abruzzesi.

Inoltre è nel solo Abruzzo che si riscontra la presenza delle grandi masserie che, possedendo migliaia di capi ovini, potevano garantire una quasi illimitata disponibilità di siero, condizione indispensabile per permettere al cane di essere presente in numeri tali ( decine e decine per gregge) da assicurarne la conservazione e lo sviluppo. L’assenza delle grandi masserie, qualificava, invece, un allevamento ovino con un numero di capi per gregge limitato, con la conseguenza che anche il numero di cani da difesa del gregge era necessariamente modesto e diffuso in piccoli nuclei che non potevano assolutamente garantire la sopravvivenza della razza ( eccesso di consanguineità, difficoltà di ricambio, ecc.), cosa, d’altra parte, ben nota in zootecnia.

L’origine di questo cane, oggi chiamato nella cinofilia ufficiale ( ENCI – Ente nazionale della cinofilia italiana – e FCI – Federazione cinologica internazionale- ) “cane da pastore maremmano- abruzzese”, ma conosciuto come “ pastore abruzzese” o “cane da pecora” o “mastino” nella pastorizia abruzzese, è molto antica ed è accertata fin dai tempi dei romani nelle aree dell’Italia centro- meridionale dedite alla pastorizia e in particolare in Abruzzo, come già risulta dagli scritti dei letterati latini Varrone e Columella che ne danno una descrizione molto simile nell’aspetto a quella dei cani oggi presenti in cinofilia (cane da pastore maremmano-abruzzese)  o ancora a guardia delle greggi nei pascoli d’Abruzzo e non solo.

 

 

 

 

TESTIMONIANZE

 

La quasi totalità delle fonti che prima dell’avvento della cinofilia ufficiale fanno riferimento al cane da protezione delle greggi lo identificano con l’Abruzzo. Fino a quella data la razza era sempre stata pacificamente conosciuta come “Abruzzese” (Mégnin, 1900; Vecchio, 1904; Faelli, 1908).

Già nel “De agricoltura” lo scrittore latino Columella, del I sec. d.C.,  consiglia, tra l’altro, ai suoi conterranei di prendere esempio dai popoli Marsi, Equi, Peligni e Frentani  ( popoli abruzzesi ) che usano per la custodia delle greggi una razza di cani grossi, feroci, bianchi, con lunghi peli irti e gli occhi come carboni. Essi, dice, non abbandonano mai le pecore, anche di fronte all’assalto di lupi orsi e ladri; sopportano la fame, la sete e il freddo e sono molto meno costosi e molto più fedeli degli schiavi che mangiano tanto, si ammalano facilmente, rubano e fuggono al primo sentore di pericolo.

Molti secoli dopo le parole di Columella, nel 1731, per esempio, il molisano Stefano Di Stefano, avvocato della Corte Napoletana, nel suo saggio storico “ La ragion Pastorale” parla ancora dei cani d’Abruzzo, e agli inizi dell’800, parlerà di loro lo scrittore Vincenzo Dandolo nel suo trattato “ Del governo delle pecore”. Molti altri scrittori si sono interessati ai cani abruzzesi e hanno parlato diffusamente del loro insostituibile ruolo nella pastorizia. Il bresciano Arici, nel 1824, nel saggio “ La pastorizia”,  nel 1906 il saggista di Castel di Sangro, Ettore D’Orazio, nella sua “ Storia della pastorizia abruzzese”, Giambattista Rosa nel suo volumetto “ L’Avellano”, “La giornata di Tagliacozzo storia italiana per Cletto Arrighi” Sanvito 1859 (da una ricerca di Sandro Della Penna)  e per finire nel 1978 il grande scrittore abruzzese Ignazio Silone ne “L’avventura di un povero Cristiano”.

Nel “Dizionario generale di scienze, lettere, arti, storia, geografia” della Società l’Unione Tipografico-Editrice, 1863, viene riportato: III. Costumi, cultura, dialetti, industrie, prodotti.  “ I montanari degli Abruzzi attendono particolarmente alla pastorizia…….. migrano alle pianure della Puglia. In queste migrazioni stagionali i pastori sono per lo più accompagnati…….. oltre ai loro grossi cani bianchi che sono assai feroci contro gli estranei….” ( da una ricerca di Sandro Della Penna).

Nel testo “FAUNA del Regno di Napoli” edito dalla Regia Università di Napoli 1839 si legge:  Cane familiare; C. familiaris. Var.: C. mastino o corso – C. bolognese. – C. Leviere. – C. da Pastore od Abruzzese

 

 

 

In molte riviste straniere comparvero articoli sui cani abruzzesi. Nel 1833 il Penny Magazine ( Regno Unito) pubblicò un articolo sulla pastorizia abruzzese scrivendo, tra l’altro, dei pastori d’Abruzzo, “ The Shepherds of the Abruzzi”, e dei cani da lupo degli Abruzzi, “ Wolf dogs of the Abruzzi”. Nello stesso anno in Francia sul “ Magasin Pittorescque” apparve un articolo che citava gli Appennini e l’Abruzzo e pubblicava una stampa con i cani chiamati “chiens des Abruzzese” (cani abruzzesi o cani degli Abruzzi). Nel 1835 il Nederlandsch Magazijn, pubblicò un immagine, molto conosciuta , con le scritte DE ABRUZZI-HERDERS ( I Pastori Abruzzesi) e Italiaanse Wolfhonden  ( cani da lupo italiani) ( da una ricerca di Guglielmo Nucciarelli)

Nel “ Librairie agricole de la maison rustique” del 1839 di parla di “ Berger des abruzzese” ( pastori degli Abruzzi). Anche in autorevoli fonti enciclopediche britanniche si fa riferimento ai cani abruzzesi, definendoli come “ italian wolf dog ( cane da lupo o anilupo) vedi “ Dogs, their origin and Varietes, directions  to their general management, and simple ( da una ricerca di Sandro Della Penna).

Anche molti scrittori stranieri nelle loro opere chiamano il cane guardiano degli armenti sempre abruzzese o lo riferiscono all’Abruzzo. Nel 1821, l’inglese Keppel Craven, nel suo libro intitolato “Viaggio nelle Provincie meridionali del Regno di Napoli” scriveva “ Il bestiame era guardato da grandi cani bianchi di una particolare razza abruzzese”.

Un’altra testimonianza l’abbiamo dalla scrittrice inglese Anne Mac Donnel, che visitò l’Abruzzo agli inizi del ‘900. La signora Mac Donnel infatti scrive “ I cani da pecora degli Abruzzi sono davvero formidabili. Enormi, bianchi ed irsuti…..” ( da una ricerca di Sandro Della Penna).

In definitiva tutti i testi, le pubblicazioni, le stampe ecc., sia italiane che straniere degli ultimi secoli ( a partire dal settecento fino ai primi decenni del ‘900), quindi molto prima dell’avvento della cinofilia ufficiale, quando fanno riferimento al cane bianco da protezione del gregge lo chiamano abruzzese o lo associano all’Abruzzo, mai e poi mai il cane bianco difensore del gregge viene chiamato “ maremmano”.

Anche nell’arte il cane abruzzese è spesso presente, in incisioni,  in  quadri, come  nella Regia di Napoli e  nel Palazzo Farnese di Caprarola (Vt),  e in un presepio del seicento nella regia di Caserta. Ritroviamo spesso il cane in numerosi dipinti dell’ ‘800 che ritraggono il paesaggio della campagna romana ( dove, con la fine della Dogana di Foggia, transumavano molte greggi abruzzesi) e addirittura in Francia in un quadro di Oudry del 1746, oltre che in numerosi affreschi sparsi in diverse chiese, più o meno note, dell’Italia centro – meridionale.

Oltre agli scritti numerose notizie attestano come, nel corso dei secoli, chiunque abbia avuto bisogno di cani da difesa del gregge, o più in generale abbia avuto la necessità di difendersi dai lupi, abbia sempre ricercato i cani in Abruzzo.

Nella Francia a metà del secolo XVIII, per esempio, in una regione chiamata Gevaudan (oggi Lozere) nel 1765 c’era un lupo enorme chiamato “bête du Gevaudan” che aveva ucciso 14 persone e aveva portato quasi all’estinzione una popolazione di cervi. Luigi XV, delfino di Francia, incaricò allora il suo capocaccia, Chevalier Anthoin, di porre rimedio a quel flagello. Questi, riferisce il naturalista Brehm, portò con sé dei “ cani degli Abruzzi” che lo aiutarono nell’impresa e lo fecero tornare vincitore.

Un’ulteriore conferma della costante presenza del cane negli altopiani abruzzesi l’abbiamo ancora nella seconda metà del 1900, nonostante la pastorizia abruzzese fosse ormai di proporzioni modeste. Nel 1976 i coniugi Lorna e Ray Coppinger, dell’Hampshire College del Massachussetts (U.S.A.), per tentare di risolvere il problema legato alla predazione degli agnelli da parte dei coyote nelle greggi della loro terra, diedero vita al “progetto cani da bestiame”. Importarono al riguardo cani da guardiania dall’Europa e dall’Asia Minore e anche soggetti di razza cane da pastore maremmano-abruzzese provenienti da allevamenti riconosciuti dall’ENCI ( Ente nazionale della cinofilia italiana). I risultati forniti da questi cani di selezione cinofila furono disastrosi e i soggetti importati furono tutti soppressi. Successivamente, negli anni ’80, il prof Coppinger tornò in Italia, ma questa volta si recò direttamente sulle montagne abruzzesi dove trovò ancora quei cani da guardia del gregge che venivano selezionati da millenni dai pastori. Decise così di importarne alcuni in USA ed ebbe dal loro utilizzo ottimi risultati nella difesa delle  greggi dai Coyote.

Persino dalla cinofilia ufficiale ci arrivano, pochi decenni orsono, dei dati che confermano come il cane fosse presente in prevalenza in Abruzzo. Nel 1974, infatti, quando la pastorizia abruzzese si era avviata verso un declino ormai inarrestabile, per le ragioni sociali ed economiche che tutti ben conoscono, l’allora Presidente del Circolo del Pastore maremmano abruzzese (società specializzata per la tutela della razza, riconosciuta dall’Enci), Comm. Renato Boccia, ebbe l’idea di censire i soggetti della razza non iscritti ai libri genealogici, ma ancora presenti nella pastorizia. Il censimento fu svolto dal Corpo forestale dello Stato e il risultato di tale indagine venne pubblicato sul notiziario del Circolo il 24 Maggio 1975. Furono censiti 2886 cani da pastore così distribuiti: 1040 in Abruzzo, 530 nel Lazio, 283 in Molise, 217 in Basilicata, 211 in Umbria, 171 in Puglia, 169 in Campania, 164 nelle Marche, 55 in Calabria e 46 in Toscana. Appare chiaramente evidente,  come, ancora in quegli anni, nonostante la crisi irreversibile della pastorizia abruzzese, il grosso della razza vivesse ancora in Abruzzo. Inoltre, per le ragioni legate alle migrazioni stagionali, di cui abbiamo compiutamente parlato, gran parte della popolazione canina laziale, molisana e pugliese era senz’altro riconducibile a quella dell’industria armentizia abruzzese.

Sembra perciò evidente, anche dalle testimonianze che ci sono giunte da un passato più recente, come l’Abruzzo sia stato la culla del cane bianco difensore del gregge, anche se la razza era presente, seppur in maniera molto meno significativa, in tutto l’Appennino centrale italiano, dal Mugello al Pollino, ossia in tutte le aree dove si praticava l’allevamento delle pecore.

 

IL NOME DEL CANE NELLA CINOFILIA UFFICIALE

 

Se appare certa e incontrovertibile l’origine abruzzese del cane e il suo utilizzo continuo in quella terra, l’aver fatto riferimento all’Abruzzo nel nome dato alla razza dalla cinofilia ufficiale, “cane da pastore maremmano – abruzzese”, appare assolutamente corretto. Altrettanto, però, non può dirsi per il primo termine, quello di  “maremmano”.

Spesso si giustifica questa decisione della cinofilia ufficiale sostenendo che nel nome assegnato  alla razza si voleva evidenziare come il cane, con la transumanza, fosse presente in due territori, in Abruzzo nel periodo primaverile – estivo e nella maremma nei restanti periodi.

La scelta del doppio nome appare sicuramente errata, in quanto il voler identificare la razza con le diverse aree di transumanza è sbagliato, come è altresì avvalorato dal fatto che nessuna altra razza da protezione al mondo viene identificata sulla base dei luoghi dove è presente nei vari periodi dell’anno, perché nella denominazione di tutte le razze da difesa del gregge si fa sempre riferimento al loro luogo di origine, ossia alla montagna. Questo è il caso del Cane da montagna dei Pirenei, del Cane da pastore del Caucaso, del cane da pastore di Ciarplanina, del cane da pastore di Tatra, del Cane da Pastore dell’Anatolia ecc. Il cane da protezione, infatti, trova la sua origine e la sua diffusione nelle aree di montagna in quanto legato indissolubilmente alla pastorizia che è nata e si è sviluppata nei territori montani dove era largamente diffusa la presenza del lupo dalla cui predazione questi cani dovevano proteggere le greggi. I proprietari delle greggi, d’altra parte, sono stati sempre i montanari e la transumanza avveniva dal monte al piano e mai in maniera inversa. Pertanto il cane difensore del gregge trova la sua origine e la sua diffusione nelle aree di montagna e con queste aree deve essere, per ragioni storiche, sociali e culturali, identificato. Inoltre, anche prescindendo dal fatto che la decisione di denominare la razza sulla base delle diverse aree geografiche dove era presente nei diversi periodi dell’anno appare del tutto ingiustificata, l’aver adottato da parte dell’Enci, come riferimento per indicare le diverse aree di transumanza,  la maremma, da cui il termine “maremmano”, è stato frutto di un’analisi storica del fenomeno della transumanza a dir poco approssimativa. La transumanza in maremma, infatti, è stata di modeste dimensioni e anche molto meno organizzata, non solo rispetto alla transumanza verso le Puglie, ma anche in confronto alla transumanza che interessava la Campagna Romana. La Maremma, inoltre, è stata sempre molto più nota per l’allevamento brado di bovini e cavalli, e per la presenza dei Butteri, che per l’allevamento di pecore e per le tradizioni legate alla pastorizia. Anche la morfologia del suo paesaggio, dove imperava il paludismo, la macchia e l’incolto, era poco idonea per un allevamento ovino importante. In  maremma, poi, non vi è mai stata una transumanza ovina di tipo orizzontale con l’Abruzzo,  perché era impossibile che ciò accadesse, in quanto, prima dell’Unità d’Italia, addirittura due confini di Stato separavano le due zone: lo Stato Pontificio e il Gran Ducato di Toscana. La grande, millenaria industria ovina transumante abruzzese, come attestano tutti gli studi al riguardo, si è sviluppata tra l’Abruzzo e la Puglia e, in misura minore tra l’Abruzzo e la Campagna romana, e non certamente tra l’Abruzzo e la Maremma, ed è stato in quella grande pastorizia che ha prosperato quello che oggi la cinofilia ufficiale chiama “cane da pastore maremmano – abruzzese”.

Partendo da queste considerazioni, e dalla storia delle transumanze dell’Italia centro -meridionale, risulta pertanto completamente infondato anche quanto riportato nello standard del “cane da pastore maremmano – abruzzese attualmente in vigore, relativamente alla “ storia”, dove esso recita: “ antica razza da gregge le cui origini vanno ricercate nei cani da pastore tuttora utilizzati in Abruzzo ed un tempo presenti nella maremma tosco-laziale. Con la transumanza delle greggi da una regione all’altra iniziava un naturale processo di fusione, in particolare dopo il 1860”. L’infondatezza di quanto riportato nello standard, deriva in primo luogo dal fatto che già molto prima del 1860 le transumanze avevano conosciuto un progressivo e inarrestabile declino, tanto che in maremma l’allevamento ovino era ridotto già da molto tempo ( la Dogana dei Paschi fu abolita già nel  1778) a numeri insignificanti,  e in secondo luogo, perché “il naturale processo di fusione”, di cui parla lo standard, presupponeva una transumanza di tipo orizzontale tra Abruzzo e Maremma che, invece, come sappiamo, non è mai esistita

Pertanto, se proprio si voleva assegnare un doppio nome alla razza, anche se la scelta sarebbe stata, anche in questo caso, non corretta, il cane doveva essere chiamato “cane da pastore abruzzese – pugliese” o al limite “cane da pastore  abruzzese – romano”, e non certo “cane da pastore maremmano- abruzzese”.

È senz’altro vero che il cane bianco difensore delle greggi era presente, nei secoli passati, anche nella maremma toscana, come è testimoniato da numerosi affreschi (“Allegoria del buon governo”, di Ambrogio Lorenzetti… e tanti altri) e da alcuni scritti, ma queste testimonianze sostanzialmente si riferiscono  al 1300- 1400.   Successivamente si hanno pochissime notizie della presenza del cane in Maremma, se non  in uno scritto di Curzio Malaparte degli anni ‘50 del 1900 e nei lontani ricordi di alcuni grandi proprietari terrieri toscani dell’epoca, che affittavano parte delle loro immense tenute a qualche pastore transumante. I pochi cani bianchi presenti in maremma negli anni ’50, all’epoca del riconoscimento della razza con la denominazione “cane da pastore maremmano – abruzzese”, rappresentavano piccolissime popolazioni residuali o addirittura singoli soggetti spesso presenti nelle ville della campagna toscana,  tanto che, com’è ben noto a tutti gli appassionati del cane, i cinofili toscani, e quelli delle regioni limitrofe, che iniziarono ad allevare la razza con qualche soggetto ancora presente in Maremma, per avere dei risultati apprezzabili nel loro lavoro di selezione dovettero attingere ampiamente, e per molti anni, ai cani che ancora vivevano sui monti d’Abruzzo o a quelli che passavano l’inverno nella campagna romana al seguito delle greggi transumanti anch’esse, nella stragrande maggioranza,  provenienti dagli altopiani abruzzesi.

 

Donna Anna Corsini con una bellissima cucciolata di cani da pastore maremmano – abruzzese

 

Altri ancora sostenevano che il doppio nome derivasse dal fatto che la formazione dell’attuale cane era avvenuta per la fusione di due razze di cani bianchi molto simili tra loro: il cane da pastore abruzzese ed il cane da pastore maremmano.

Anche questa teoria è però priva di qualsiasi fondamento, in quanto la razza “pastore maremmano” non è mai esistita, tanto che la morfologia del “cane da pastore maremmano-abruzzese”, descritta nello standard approvato a suo tempo dall’Enci, identifica semplicemente il cane da pastore abruzzese, anzi, lo standard Enci del “pastore maremmano-abruzzese” era identico a quello definito negli anni precedenti per il  “pastore abruzzese”, mentre del vecchio standard del presunto maremmano non c’è nessuna traccia. Insomma, la razza, anche se presente in vari territori, era sempre la stessa.

Perché allora si è scelto il termine  “maremmano”? La risposta è semplice. Questa decisione è stata senz’altro “ condizionata” dal fatto che i primi cinofili ad interessarsi del cane bianco da pecora siano stati i cinofili toscani: i Corsini di Firenze e i Chigi Saracini di Siena. Queste Famiglie, infatti, sono state le prime a portare avanti la selezione amatoriale del cane e a farlo conoscere al vasto mondo della cinofilia. È proprio per questo ruolo “meritorio” che i cinofili toscani hanno avuto, per una sorta di riconoscenza nei loro confronti e per il significativo ruolo che avevano all’interno dell’ENCI,  che, a nostro parere, la cinofilia ufficiale ( ENCI) ha voluto inserire nel nome della razza il termine “maremmano“, appellativo comunemente associato alla Toscana, loro terra di origine.  D’altra parte, l’aver addirittura anteposto il termine “maremmano” a quello di “ abruzzese”, quando, sia per ragioni di mero ordine alfabetico che per evidenti ragioni storiche, in quanto la transumanza avveniva sempre dal monte al piano e mai in maniera inversa, il cane si sarebbe dovuto chiamare, anche se tale denominazione appare ugualmente non corretta, abruzzese-maremmano, rende questa ipotesi non priva di fondamento. Inoltre, se analizziamo  come, in cinofilia, si sono succeduti nel tempo i vari standard riferiti al cane bianco difensore del gregge ci rendiamo conto come la denominazione  “maremmano – abruzzese” risulti  una sicura forzatura:

 

 

GLI STANDARD DEL CANE DA PECORA NEL TEMPO

 

Fu soltanto nel 1958 che il prof. Solaro elaborò lo standard del cane da pastore maremmano- abruzzese.  Fino ad allora, sempre riferiti al cane da pecora, si erano succeduti vari standard in cui il cane viene chiamato e descritto, sempre dal solo punto di vista morfologico, in maniera a volte anche molto diversa.  

Il primo standard che parla del “cane da pecora” recita: “Caratteristiche del cane da pastore maremmano detto anche abruzzese”, e  fu  pubblicato in “A. Martini:Il cane poliziotto, da guardia e da difesa- Hoepli 1925”,  quale estratto del bollettino del Kennel club italiano. Nel 1924, infatti, i dottori. G. Solaro e L. Groppi pubblicarono sul Bollettino del Kennel Club Italiano lo standard del “cane da pastore maremmano detto anche abruzzese”.

Dalla lettura di questo primo standard si evince che  coloro che lo elaborarono ritenevano che sia il “maremmano” che l’ “abruzzese” costituissero un’unica razza.

In esso  è descritto un cane che,  seppur nei caratteri generali è simile alle descrizioni che ritroviamo negli altri standard succedutisi nel tempo per l’abruzzese e poi per il maremmano - abruzzese, si differenzia dal cane descritto  in questi ultimi per alcune importanti caratteristiche. La prima è che si parla di un  cane di buona taglia e non di un cane di grande taglia,  il che è avvalorato successivamente dalle misure dell’altezza al garrese e del peso del cane.

Un’altra caratteristica che lo differenzia dal cane descritto negli  standard  successivi  la troviamo nel tipo di pelo  e nel suo colore. È ammesso anche ondulato e riguardo al colore vengono accettate le sfumature isabella e addirittura il manto  completamente isabella chiaro.

In ultimo  i parametri relativi all’altezza (da 58 a 68 cm.) e al peso (30-40 Kg)  sono riferiti ad un cane di poco superiore alla taglia media.

La cinofilia ufficiale non ritenne però corretto lo standard  del 1924,  tanto che nel numero 6 del 1938 di Rassegna cinofila vengono descritti dal prof. Solaro i “Caratteri differenziali fra il tipo maremmano e il tipo abruzzese del cane da pastore italiano di pianura”.

Tali differenze tra  il tipo maremmano e l’abruzzese le ritroviamo nella taglia che è inferiore nel maremmano. Nella testa che è di tipo molossoide nel maremmano e di tipo lupoide nell’abruzzese. Nella qualità del pelo che è meno folto nel maremmano, rispetto a quello dell’abruzzese, e fortemente ondulato e a bioccoli (quasi riccio), mentre nell’Abruzzese  è liscio  e più lungo. Nell’ abruzzese è poi presente un foltissimo collare di peli lunghi che parte dalle ganasce e arriva al petto, mentre tale collare nel maremmano è assente.

Nel colore del manto che nell’Abruzzese è bianco candido, senza macchie o con piccole macchie arancio pallido sulle orecchie, mentre nel maremmano il manto bianco è raro e si riscontrano per lo più soggetti colore isabella chiaro, o a manto bianco, ma con molte macchie arancio sbiadito.

Nei bordi palpebrali, nella mucosa visibile del bordo labiale, nella pelle del tartufo che nell’Abruzzese sono, o dovrebbero essere, neri o a fondo nero, mentre nel Maremmano  possono essere, e lo sono quasi sempre, marrone chiaro.

Nel 1952, il dott. Franco Cagnoli, il Prof. Lamberto Colonna ed il Prof. Giovanni Pischedda, non ritenendo corretto che il maremmano e l’abruzzese venissero considerate due varietà della stessa razza, elaborarono uno schema di standard esclusivamente per l’abruzzese che presenta differenze notevoli  rispetto al primo “standard del maremmano detto anche abruzzese” e che descrive un cane con le seguenti caratteristiche peculiari:

Grande taglia

Cranio lievemente convesso- salto naso-frontale poco pronunciato – muso largo e piuttosto lungo, leggermente appuntito.

Pelo: a differenza del pelo del maremmano, quello dell’abruzzese è poco ondulato

Colore: bianco puro, talora con macchie arancio pallido o avorio sulle orecchie e sulla testa.

Altezza al garrese: nei maschi 69-80 cm – nelle femmine 62-75cm

Peso: nei maschi 40/70 Kg. – nelle femmine 30/60Kg.

Anche se i liniti superiori per l’altezza e per il peso appaiono esagerati, lo standard descrive senz’altro un cane lupoide di taglia molto più grande del cane descritto in precedenza, di colore sostanzialmente bianco e di pelo liscio.

Nel 1954 venne divulgato lo standard  del pastore abruzzese elaborato dal Prof. Solaro, dal conte Brasavola e dal dott. Caielli, di concerto  con il Circolo del pastore abruzzese.

Lo standard elaborato ricalca, sotto molti aspetti, quello elaborato nel 1952 dal dott. Franco Cagnoli, dal Prof. Lamberto Colonna e dal Prof. Giovanni Pischedda.

Viene descritto un  cane lupoide, viene confermata la grande taglia, si parla di “pesante mesomorfo”.

 

 

Il  pelo viene indicato liscio e bianco, e vengono tollerate sfumature avorio o arancio pallido sugli orecchi oltreché una leggera ondulazione.

La statura ed il peso vengono parzialmente ridimensionati. Si parla di una altezza da 65 a 73 cm per i maschi e da 60 a 68 cm per le femmine. Il peso passa a 35/45 Kg. per i maschi e a 30/40 Kg. per le femmine. Tali parametri sembrano certamente più rispondenti alla realtà della razza e confermati dalle misura effettuate allora su soggetti di razza abruzzese presenti nella pastorizia.

La cinofilia ufficiale  (Enci) fu  però contraria al riconoscimento della razza “ pastore abruzzese”, in quanto voleva unificare le due varietà .

Infatti, in Fiorenzo Fiorone ne “Le razze canine”, finito di stampare il 10 Novembre 1955, a pag. 212 si legge, in riferimento alla razza, che “non vengono pubblicati i caratteri differenziali…… in quanto è in corso la elaborazione di uno standard unificato.”

Perché l’Enci, ad un tratto, abbia deciso di creare una sola razza, nonostante, all’epoca si fosse costituito anche il Circolo del pastore maremmano, non è chiaro e lascia spazio ad interpretazioni anche “malevole”. Su tutta la vicenda l’eminente cinologo Piero Scanziani nella rivista “ Rassegna cinofila” del 1958” scrive:

“Nel 1950 nasce a L’Aquila il Circolo del Cane da Pastore Abruzzese allo scopo di inquadrare il lavoro di ricerca e selezione della razza, cominciato nel 1946. Nel 1951 e 1952 si pubblicano su questa rivista articoli che esaminano le questioni riguardanti l’abruzzese. Il 22 e 23 marzo 1953 l’ENCI manda a l’Aquila uno dei suoi maggiori competenti, il conte Brasavola, che iscrive ai Libri Origine, come capostipiti degli abruzzesi, due stalloni,una fattrice e sei giovani. L’ENCI consegna a questi esemplari ed ai loro discendenti dei regolari certificati di iscrizione come Pastori Abruzzesi. In varie mostre successive, vari giudici qualificati rilasciano dei  CAC a questi abruzzesi. Un soggetto sta anzi per essere proclamato campione. Nascono dei cuccioli nuovi, si continua la selezione, ci si appassiona intorno a questa splendida razza appenninica. Ormai gli amatori dell’abruzzese hanno tutto il necessario per il loro lavoro: i cani capostipiti, i prossimi campioni, i giovani, le varie linee di sangue, lo standard. A interrompere bruscamente la loro bella azione, cominciata or sono otto anni, ecco giungere il neonato “Circolo del pastore maremmano” il quale inesplicabilmente rinuncia ad un suo tradizionale standard stabilito fin dal 1924 e vuole accaparrarsi quello testé redatto per l’abruzzese.”

Tanto che al riguardo scrive ancora Scanziani “ il prof. Solaro ha cambiato idea e ha deciso di sopprimere sia il maremmano che l’abruzzese per inventarsi sulla carta qualche cosa di nuovo e di più moderno.”

 

 

Insomma, quello che è successo porta con sé molte domande:

perché ad un tratto il “maremmano” scompare, nonostante che nel 1938 Solaro ne abbia così compiutamente descritto le caratteristiche che lo differenziano dall’abruzzese? Dove sono andati a finire quei cani maremmani descritti dall’eminente cinologo?

Perché il Solaro, dopo aver descritto le differenze tra maremmano e abruzzese,  ed aver redatto sia lo standard  del “pastore maremmano” (1924) che quello del “pastore abruzzese” (1954) ha fatto poi marcia indietro, unificando due razze con morfologie, per molti aspetti, anche parecchio “diverse”? Molti sostengono, forse a ragione, che il motivo del comportamento del Solaro è dovuto al fatto che egli si sia reso conto che i soggetti  di  razza “maremmana” erano troppo pochi per poterli considerare una razza a sé stante, mentre la  razza “Abruzzese” era molto ben rappresentata. A quel punto, Solaro giudicò opportuno, a parere di molti, aderire alle sollecitazioni di alcuni importanti personaggi che spingevano per  “unificare” le due presunte razze. Questa ipotesi è avvalorata  da quanto si legge nello standard elaborato nel 1958 da Solaro per il pastore maremmano-abruzzese  (caratteri etnici del cane da pastore maremmano – abruzzese). Tale standard, infatti,  rispecchia, sostanzialmente, le caratteristiche razziali già descritte nel 1954 dallo stesso Solaro per l’ “Abruzzese”, mentre le caratteristiche a suo tempo descritte per il “maremmano” sono completamente sparite. In conclusione, si può affermare, senza tema di smentita, che lo standard del pastore maremmano – abruzzese è stato elaborato, esclusivamente,  sulla base delle caratteristiche morfologiche dei cani della pastorizia abruzzese e che pertanto l’aver denominato la razza “ cane da pastore maremmano – abruzzese” appare una scelta più che altro “politica”.

 

  

 

CONCLUSIONI

 

Pur riconoscendo che il cane era diffuso in tutto l’Appennino centrale, dal Mugello al Pollino, era  presente in maniera straordinariamente prevalente in Abruzzo, perché in quella terra si concentrava la gran parte del patrimonio ovino appenninico ed era lì che la costante presenza del lupo imponeva l’utilizzo di moltissimi cani da protezione. Inoltre, in Abruzzo la pastorizia è stata praticata fin dall’epoca pre-romana, e da allora in maniera continuativa fino ai giorni nostri,  mentre in altre aree dell’Appennino centrale tale pratica, già di per sé modesta, è scomparsa dopo alcuni secoli o si è ridotta in maniera drastica. Dalla fine della dogana dei Paschi e di quella Pontificia, ossia dalla fine del 1700 al riconoscimento della razza (1958), e anche dopo, ossia per oltre due secoli, il cane bianco guardiano del gregge si è conservato solamente grazie all’Abruzzo, dove la pastorizia transumante è stata fiorente almeno fino alla metà degli anni ’50 del 1900. D’altra parte, come già in precedenza affermato, è nel solo Abruzzo che esistevano le grandi masserie, uniche realtà che permettevano la presenza di cani da pecora  in numeri tali ( anche centinaia di cani per masseria ) da garantire la conservazione e lo sviluppo della razza.  In definitiva, per quanto in precedenza dimostrato, il nome corretto per la razza non può che essere quello di “cane da pastore abruzzese”. Far coincidere il nome di  una razza canina con il territorio dove essa è stata da sempre maggiormente diffusa, rappresentata e preservata, e la razza in esame in Abruzzo lo è stata in maniera straordinariamente superiore rispetto alle altre aree dell’Appennino, è una scelta coerente e non rappresenta certo una novità o un’anomalia, perché molti sono gli esempi che, oltre all’estero, come abbiamo già evidenziato, sono presenti anche in Italia. Il Cirneco, si chiama Cirneco dell’Etna, non perché non fosse presente anche in altre zone della Sicilia, ma perché era nel territorio etneo che aveva la sua culla d’elezione. Questo vale anche per il pastore Bergamasco, per il bolognese,  per il mastino napoletano, per il maltese e tanti altri. Un’anomalia è il non averlo fatto per  “il cane da pastore abruzzese”. Insomma, spetta di diritto la paternità di una razza alla terra che  ne è stata la culla e che ne ha garantito nei secoli la sopravvivenza… e nel nostro caso questa terra è senza tema di smentita l’Abruzzo.

Per questo, se si vuole ripristinare una verità storica, per troppo tempo, almeno parzialmente, dimenticata; se si vuole dare il giusto riconoscimento alla terra e agli uomini che hanno avuto il merito di salvaguardare un patrimonio zootecnico e culturale del nostro paese, che altrimenti sarebbe da tempo scomparso, il cane deve essere chiamato “cane da pastore abruzzese”.

                                                                                                                                  

 

 BIBLIOGRAFIA

 

“Il pastore, il contadino, il mercato: alle origini della transumanza” di Luciano Arcella. Rivista “SILVAE” – Rivista tecnico -scientifica del Corpo Forestale dello Stato anno I n.2  Maggio- Agosto 2005.

John A. Marino “ L’economia pastorale nel Regno di Napoli” GUIDA EDITORI

“Il cane da pastore maremmano – abruzzese” di Paolo Breber  – Edizioni Olimpia

“Il  pastore maremmano – abruzzese. Il cane della transumanza “di Gianfranco Giannelli – Cosmo Iannone Editore -.

“Dopo le Dogane: le transumanze peninsulari dell’Ottocento” di Saverio Russo in Social History and Pastoral Economy di Olimpia Vaccari

“La Transumanza in Toscana nei secoli XVII e XVIII” di Ovidio dell’Omodarme –Melanges de l’ Ecole française de Rome Moyen age, Temps modernes. Année 1988. Volume 100

“La grande pastorizia transumante abruzzese tra mito e realtà” di L. Piccioni. CHEIRON   – Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico.-

“Osservazione sul comportamento del Pastore maremmano – abruzzese :studio degli indicatori dell’efficienza nella difesa del gregge.” Tesi di laurea della dott.ssa Roberta Mancini. Alma Mater studiorum – Università di Bologna.

Relazione di Ennio Giuliani al convegno sul tema: “Pastore o mastino? Maremmano o Abruzzese? Morfologia e caratteristiche funzionali del nostro cane bianco a guardia delle pecore”. L’Aquila  14/06/1997.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo  libro  parla non solo del cane pastore abruzzese, ma anche di altre razze originariamente utilizzate in supporto alla pastorizia. In questo saggio faccio cenno  alle differenze e similitudini tra esse e come anche la morfologia e la biomeccanica svolgono un ruolo importante nella selezione di questi cani. Dal titolo però si evince che il filo conduttore è costituito dalla componente psicologica insita in queste razze e come essa interviene sulla funzionalità di questi cani, garantendo una pacifica convivenza tra operatori zootecnici  e predatori.  Questo saggio spiega come attraverso un sistema comunicativo tra guardiani e incursori si possono ridurre  sensibilmente i danni ed evitare che si scatenino, come in passato, guerre tra gli uomini che vivono di allevamento di bestiame da reddito e i grandi predatori, ormai sempre più presenti nei vari territori del vecchio continente.

Questo è il mio primo libro che parla della storia del cane da pastore abruzzese. Parla delle mie esperienze personali ma anche di fatti ed evidenze mai pubblicate in altri testi. Alcune cose contenute nel libro per gli appassionati cinofili evidentemente non risultano di sufficiente interesse, altre invece spesso vengono volutamente omesse perché considerate verità scomode. A me interessa dare informazioni e non riscuotere successo. Ho ritenuto necessario scrivere questo libro affinché restasse memoria di alcune evidenze che riguardano questa razza, spesso smentite ma solo a voce. E' un testo utile anche per chi vuole iniziare ad avvicinarsi a questo splendido cane, potendo così partire con le idee un po' più chiare; che di sciocchezze se ne sentono anche troppe in giro. A breve uscirà il mio secondo libro che parla dei cani da guardiania più in generale e la loro atavica predisposizione che li rende così adatti al  lavoro che svolgono.